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Perdendo tempo precipitando

18 Lug

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Scalavano assieme una montagna, quando a un certo punto lei gli lasciò la mano e lui cadde nel vuoto. Avvertì in primo luogo un senso di incommensurabile affetto, che presto avrebbe lasciato il posto alla cruda realtà. Precipitando per molti metri, non smetteva di chiedersi il perché di quel gesto; se in qualche modo avesse potuto prevederlo, se fosse stato possibile tornare indietro… evidentemente, no. Non si recupera una caduta da quell’altezza. Non avendo altro da fare in quei pochi ultimi attimi, avvitandosi su se stesso precipitevolissimevolmente tornava a chiedersi quale sarebbe stata la direzione che lei avrebbe scelto; certo sarebbe salita verso l’alto ancora per un poco. Egli invece scendeva, scendeva, e non per sua scelta. Ora avvertiva se stesso come un inutile peso di cui avrebbe voluto liberarsi… ma non poteva.

La terra si avvicinava a una velocità sempre maggiore e le cose del mondo si ingrandivano e diventavano sempre più chiare ai suoi occhi. Ipotizzò, non avendo altro da fare, che la capacità di distinguere bene le cose si fosse offuscata durante la salita, che evidentemente aveva dato qualche affanno. Perse il poco tempo che gli restava ipotizzando come sarebbe potuto andare se solo avesse scelto un percorso diverso, se solo foss…

Libro allegro (di Antonio Ghislanzoni)

4 Dic
Libro allegro

EUR 1,00

«E tu, Gaudenzi, preferisci le bionde o le brune?».
«Le brune, diamine!… mia moglie è bionda».

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Questo libretto leggero raccoglie pochi brevi racconti, un’operetta “semi-seria” e alcuni ironici aforismi di Antonio Ghislanzoni, librettista d’opera (versificò l’Aida di Verdi) ma anche baritono, impresario, giornalista, poeta e scrittore. Tra i più importanti della propria epoca, un vero bohémien internazionale, tra i più autentici fra gli autori della scapigliatura milanese, tra i primi della letteratura fantascientifica italiana.
Le prose umoristiche qui riportate dipingono con irriverenza la società borghese del tempo, con caricature e frequenti riferimenti culturali, specie all’ambiente operistico e politico.
Questa edizione è l’unica completa di note per una migliore comprensione del testo, revisionato e corretto a beneficio del lettore.

Piccola preghiera

20 Apr

Crocipetto

Non c’è alcuna differenza fra me e il crocifisso che porti al collo e ti rimbalza fra le tette. Bruciamo la stessa passione, inermi e partecipi di una volontà più forte che ci trascina a te e alla quale non ci opponiamo anzi lieti ci apprestiamo al tuo petto, con entusiasmo ed evasione. Porta d’oriente, da sotto il tuo collo colgo l’affanno quando sospiri. Come il crocifisso che porti al collo mi stendo tutto su di te, mi sbraco mi denudo e grido di passione.

Oggi fai altro e ci hai lasciato sul patibolo in attesa del tuo nuovo odore. Ti giuro, il tuo petto, non c’è posto migliore per lasciarsi andare…

Dialoghi intestini

25 Dic
Solo di fronte a Dio, col pancreas in fiamme

Solo di fronte a Dio, col pancreas in fiamme

– Che c’hai nello stomaco?

– Nulla c’ho.

– E possibile che tiri fuori sempre gli stessi argomenti, lo stomaco, la nostalgia, servitù e libertà, amore e qualche forma di musica, bassa filosofia…

– Ѐ basso ventre e basta. E poi la cosa dello stomaco l’hai tirata fuori tu.

– Non mi importa. Qualsiasi cosa sia, vedi di smetterla, che così non si va da nessuna parte. Non c’è alcun senso nel corrodersi senza motivo. Chi pensi di essere? I tuoi drammi sono operetta, la tua pulsione è sesso, fame e orgoglio: assomigli a tutti, non fai la differenza, a fatica diverti te stesso.

– Non dici cose vere: io invece sento un mondo dentro…

– Evidentemente è merda, e digestione lenta. Il vomito che ti provochi è l’unica parte di te che aspira a una vera elevazione, prima o poi. E il tuo dolore è borghese, e le tue idee fritte e scaldate come la cena del giorno prima.

– Sei molto severo con me, fai così con tutti i tuoi amici?

– Specialmente con loro.

– Eppure, sai,  sul fatto che tutto ciò non abbia senso… ammetto che sono d’accordo.

– Eccolo lì…

– Cioè, una cosa in particolare non ha senso. Le mie viscere, che sembran pesci in affanno oppure gente in coda. Sono padrone del resto, tranne del mio intestino. Mi piaccio con la giusta moderazione, e sorrido e scodinzolo, chiacchiero, gioco… Dentro, dentro invece ci dev’essere qualcosa di vero che ancora non ho scoperto.

– Apriti il petto in due e vedi se puzza.

– L’ho fatto, non ho sentito dolore. Tutt’ora vado in giro con la pancia squarciata, con discreta disinvoltura.

– Lo sai che dipende solo da te, vero?

– Sì. Ma il mio corpo è in rivolta. Spesso non esegue gli ordini. Io stesso non so più a quale mio organo rivolgermi. Ognuno fa la propria parte, ognuno per sé, ma non c’è una direzione vera. Ho affidato alle periferie una certa autonomia. Poi dev’esserci stato un golpe…

– Attendi, e puoi muori.

– Sì, sto aspettando. E ti dirò che trovo abbastanza divertente attendere qualcosa che non c’è, o che non arriverà mai. Uno sforzo tanto vano da risultare sublime.

– Nulla di ideale. Sei un rozzo. E uno stronzo. E il sublime non ti si addice. Ti han fatto con una dose abbondante di organi nervosi proprio sopra il culo, era materiale di risulta. Per questo senti interferenze strane allo stomaco. Cambia l’acqua al cervello, torna dalla vacanza. E dormi. Anzi, no, svegliati! Ché il tepore che ti ottunde ti ha reso stupido e ha torto la tua vitalità.

– Dunque si vede?

– Si vede benissimo. Sembri un topo morto.

S. Sebastiano maschio e femmina, martirizzati dalla scienza medica

S. Sebastiano maschio e femmina, martirizzati dalla scienza medica

– Mi serve ispirazione, una nuova ispirazione. Quella che uso ora mi rende senza scampo. Ho la presenza di un gambero surgelato.

– E si vede da come scrivi. Guarda questo dialogo, per esempio. L’idea della diatriba non era malaccio, ma poi… Questa povertà di argomenti, la trivialità delle metafore che hai scelto, l’incapacità di collocare il tutto in un contesto coerente. E noi, poi, che abbiamo da dirci? Nemmeno ti conosco. Davvero vuoi infestare Dico solo il falso con questa gramigna? Qualsiasi altra tastiera avrebbe rifiutato di soccombere ai tuoi polpastrelli pigri per imprimere questi scarabocchi. Tranne la tua, che evidentemente si fa calpestare allo stesso modo in cui tu stesso sei oppresso dalla tua aridità.

– Sì in effetti nulla di ciò che precede è davvero interessante, e ciò che segue non promette certo meglio.

– E allora, fidati, smettila. Fra due anni, se ne sarai capace, ti deciderai a eliminare questo post.

– Fra due anni sarò un’altra persona, e tu pure. E ti accorgerai di quanto ero bello mentre mi rifiutavi. La tua presbiopia ti ha sottratto un presente più florido.

– Benissimo. Fra due anni vedremo chi aveva ragione.

– Ok, nel frattempo come affronterò questa mia inquietudine allo stomaco?

– Prega sia solo un’intossicazione. La tua unica speranza è poterne guarire. Oppure un veleno ancora più forte ti salverà. Ma ti incatenerà al tempo stesso. Sei avvertito Mitridate.

Cosmolalia

29 Set

Ballando sul palco slanciò di netto la gamba. Così forte che il piede volò sulla luna, e da lì rinunciò ad assistere al resto dello spettacolo.

Osservava invece portando il naso da sinistra a destra le stelle del firmamento, e con aria pallida e sufficiente evitava ogni commento: mancava di salutare le stelle appena nate, non alzava gli occhi a quelle cadenti. Nel frattempo, una galassia intera pulsava attorno e la polvere di stelle si sistemava sparsa e inquieta non trovando angolo nell’universo dove potersi poggiare. Effettivamente quello dell’infinito è un bel problema. Solo le iguane non ci pensano, perse come sono, tutto il giorno a leccarsi le labbra. Vanitose.

Proprio in quel momento, il buco nero generò dal suo meato cosmico una frase vuota. Questa, non avendo altri verbi da adottare, assunse fin da subito il verbo nascere e quindi una serie di azioni conseguenti, come il vivere, respirare, curiosare, fare il caffè. Mancava almeno un soggetto, e il suo oggetto, e una bocca a pronunciarli. E un fiore da offrire.

Il primo petalo era per te, il secondo per me. Il terzo non voleva farsi strappare ma il sesto ha convinto il quarto che se il quinto fosse stato reciso, non ci sarebbero state alternative. Chi mulinellò il mondo per primo? Chi lo servì alla mensa dei ricchi stambecchi come premio per la loro agilità? La tavola era piena di merda e la cosa suscitò un’improvvisa ilarità.

Kundalini amore mio, svelata porca porta a porta tòrta morta già da un po’. Ti va di uscire stasera? Sai, mi sento come un Dio. Il nostro frenulo è un vespaio di succose opportunità e non credo sia il caso di versare altro latte sul latte che piangendo hai versato. Forse speravi in una colazione migliore, o ti sono rimaste incrociate le dita dall’ultima promessa fatta e non vuoi che il Coniglio burroso lo sappia.

Leva l’àncora, salpa e lecca il fiume ora che puoi,

ché la notte quando è sera,

ricordo ancor la cavigliera,

e quel bel gesto che mi ha permesso,

di star dove sto adesso,

sulla punta di me stesso,

a ragionar di me di te di noi,

e del rumore che faceva

quel cristo di cavigliera.

Che ancòra rimbomba.

Contro forza

24 Mar

Si fa uso sempre più, soprattutto fra i giovani, della forchetta. Ciò che fino a qualche anno fa sembrava impensabile ora pare sia all’ultima moda, così che se a tavola ti presenti senza un infilzatore d’acciaio sei oggi vecchio, out.

Come si sia arrivati a questo, è difficile da concepire per chiunque abbia a cuore il senso del pudore e provi una pur minima passione per la dignità umana. Come si sia passati dal mangiare afferrando il cibo con appropriatezza, all’uso di una piccola forca acuminata è probabilmente uno dei segmenti peggiori della storia dell’etica umana.

Eppure la tavola è per sua natura elevata da terra, con lo stesso nome noi chiamiamo il supporto dove incidiamo le nostre poesie, i piccoli canti. Oggi invece abbiamo una tavola volgarizzata, che i quadri della tovaglia paiono ferite di fossi e canali e le macchie foreste e stagni e poi – indecenza – quella forca. Che piantata in un piatto di pasta pare proprio trafiggere un covone. E pari sono i commensali, come polli di batteria oppure oche che s’ingozzano pungendosi con quell’arma inossidabile. La stanza intera diventa stalla, e l’aria profuma di merda.

Mangiare con le tre dita – alla maniera che ci insegnò Ovidio – è oggi la normalità, ma ben presto dimenticheremo i tempi nei quali la bella ospite seduta a noi accanto si allungava col braccio per raggiungere un tocchetto di manzo, scostando un poco nel gesto la camicetta, cogliendo allo stesso tempo la pietanza e la nostra attenzione. Ci leccheremo le dita ancora? A che serviranno in futuro i tovaglioli? E per sentire la tepidità della porzione, dovremo accostarla immediatamente e imprudentemente subito alla bocca? Tante occasioni per scottarsi, per pungersi coi rebbi aguzzi; troppe occasioni per perdere la poesia di una cena.

La forca, come la gogna o il giogo, dovrebbe essere strumento di punizione, un’onta, un supplizio. E invece la si riserva al piacere della tavola, rompendo così come infilzando il momento più lieto della giornata. Come i più giovani non intendano tutto ciò e preferiscano invece afferrare come in guerra il manico freddo della posata piuttosto che sfiorarsi con le labbra i polpastrelli tondi e umidi… tutto questo io non comprendo. Dico, se si chiama posata è perché non la si deve alzare. Destinata a rimanere immota, si addice più a un senso di resa che di intraprendenza. Inevitabilmente, un segno distintivo della fiacchezza dei giovani di oggi.

Al tempo, io pure discutevo di nuove politiche, auspicavo la rivoluzione, combattevo – sì, anche in famiglia – per nuovi cambiamenti, talvolta sovversivi. Ma mai in nessun caso ho pensato di dimenticare la mia natura, una concreta umanità. Perché a questo arriveremo, a perdere il nostro corpo prima e il senno poi. L’uomo cibernetico usa protesi d’acciaio per eseguire comandi. Noi invece siamo uomini liberi, nessun ordine ci è imposto al di fuori della legge di natura, siamo carne sangue e passione. Le nostre mani, le stesse che fanno amore e lavoro, sono le dieci ambasciate della mente presso la realtà. Lasciano impronte e assumono impressioni. Gli asettici rebbi della forchetta invece, sono buoni solo a far incrostare il formaggio e spender soldi in detersivi per poterli nettare e nuovamente sporcare alla prossima occasione.

Può darsi sia una moda passeggera, e spero infatti di sbagliarmi. Ma l’uso della forchetta ci avvizzirà tutti quanti, urterà le gengive così che non potremo più parlare. Passeremo allora a capezzoli cinti d’imbuti d’acciaio per poppanti o baci scambiati su lastre in metallo per i prossimi amanti del secolo che verrà. Questi i tempi moderni?

Il mio strumento, assieme a me, deve pulsare.

 

Più invecchio, più colleziono cose

4 Ott
Notavo che mentre invecchio divento ricco di ricordi.
La mia memoria è un portafoglio bucato,
mia unica ragione di povertà.
Più invecchio, più colleziono cose.
Sono circondato da cose
che mi trascino da anni,
come satelliti mi gravitano attornoRielaborazione da Loïc Dubigeon, "Cent dessins"
così che ora mi son fatto l’idea
che l’ambiente in cui vivo l’ho creato da me
selezionando di volta in volta
i detriti del mio quotidiano esistere.
Intimamente convinto
che non esista un rapporto di proprietà
fra me e le cose,
ciò che mi appartiene per davvero
sono i ricordi che queste evocano,
le emozioni che suscitano.
E dunque quando osservo le mie cose,
torno a me nuovamente
e mi metto in dialogo.

 

La stanza nella quale scrivo
è ora chiassosa, assordante.
Osservo una chitarra
e il pensiero si rifrange
su di essa per tornare a me
in forma amplificata.
Immagini, suoni, emozioni
tutte assieme mi investono
atterrendomi.
Lo stesso accade
per il letto, una pipa, una bottiglia, l’orologio, un servo muto.
Ecco, parla anch’esso.
Troppo poco spesso
mi soffermo a notare
che una canzone non l’apprezzo
per il suono che emette,
ma per il suono che fa in me.

 

Io sono la regola del mio mondo,
e c’è da essere umili a ricordarlo ogni giorno
o mi convincerò
che il mio metro
possa adattarsi ad altri anche.
Quel giorno ammazzatemi, o riportatemi nella mia stanza.
 
—————–
* L’immagine è una mia rielaborazione da Loïc Dubigeon, “Cent dessins”. Da qui son partito per scrivere questo post.

Gelbe Kuh (Vacca gialla)

14 Lug
Die gelbe Kuh (La vacca gialla), Franz Marc, 1911

Die gelbe Kuh (La vacca gialla), Franz Marc, 1911

Nuovo tentativo di tradurre in modo semplice un messaggio complesso. Si può esprimere vitalità attraverso semplici azioni come il canto. È possibile ricercare la spontanea immediatezza in una vacca gialla, come fece Franz Marc. Pochi tratti, poche parole possono essere espressione di un mondo intero. La produzione è sciolta dal contesto e vive per se stessa, lascia che sia la ricettività di chi ascolta a fornire di intimo significato l’opera. Il testo – come di consueto – contiene giochetti di parole ma soprattutto si ripetono più volte gli stessi termini, che trovano significato diverso a seconda della collocazione. La musica stessa è semplicissima (per indubbia scapacità personale, ma anche per volontà dell’autore). L’intento è perciò, citando Volpi da Wikipedia, quello di produrre una forma romantica di orfismo, in un tentativo di unione dello spirito del pittore con l’anima pulsante dell’universo.

Forse qui il brano si sente meglio..

Recorded by FdB

Lyrics:

Canto tanto per cantar
Tanto canto che mi va
via la voce perché tanto canto
                Come fai a dirmi tu
                Che non vuoi cantare più
                Mentre a me mi piace tanto
                               Mi dà occasione[1] di risorgere e tramontare[2] e intanto, conto.
Conto tanto in quantità
Tanto conto per contar
Quel che ho perso perché tanto conto
                Come fai a dirmi tu
                Che non vuoi contare più
                Per me tu conti tanto
                               Per comprendere lo spazio che c’è fra un numero e l’altro[3], conto.
Su uno sfondo arancione
Ho dipinto per te
Colorata di giallo
Una vacca che fa mmmm-mmmuuu…
Come fai a dirmi tu
                Che non vuoi contare più
                Per me tu conti tanto
                               Mi dai occasione di risorgere e tramutare il pianto[4] in-canto.
 

[1] Il gioco di parole è etimologico. Occasione è termine connesso con occasus=tramonto. Si lega così al ri-sorgere e tramontare.

[2] Contemporaneamente, sorge e tramonta la voce stessa.

[3] La distanza fra un punto e l’altro è incommensurabile. Non si può misurare l’infinito così come non lo si può descrivere. Lo stesso cosmico entusiasmo che spinge la vacca gialla a essere felice e che comprime il diaframma e la voce del canto che si innalza, può essere una prefigurazione dell’incommensurabile.

[4] I versi variati che chiudono la canzone si connettono, in chiave orfica, al ciclo della vita. Il canto (e ora la persona a cui si rivolgono i versi) permette di lenire il dolore della vita, sublimandolo (l’incanto del canto) e sciogliendolo nelle lacrime del pianto. Sulla funzione normalizzatrice del pianto consiglio un link.

Se non tornerai sarò io ad andarmene

9 Mag

Aspettando al sole, una panchina al parco, due foglie a cadere e nessuno che passa.

Frago aspetta Vilmio, che non arriva. Sei anni che aspetta ma Vilmio non si presenta. Nessun biglietto messaggio avviso minimo accenno a un possibile impegno che lo abbia distratto dal randevù. Ma poi, ci si era davvero detto di vedersi? Forse era solo un’impressione di stagione, una cosa che prima ci si immagina assieme e poi non si dice.. ma sarebbe stato bello. Già è bello pensare che sarebbe stato bello, prima ancora che potesse essere per davvero. Che poi la realtà si rivela sempre misera ma più soddisfacente, la fantasia e le congetture sono invece impalpabili inafferrabili e vanno colte mentre sfuggono. Vilmio non arriva, non credo si presenterà. Nemmeno vuole farlo. Frago si è deciso: “se Vilmio non tornerà, sarò io ad andarmene”, e picchia un pugno sul legno della panchina nel parco della città di un mondo il cui cosmo risuona all’infinito.

Frago, se prende una decisione è quella. Non c’è dubbio. Risolve così il senso di una vita. Pare quindi aver deciso, non aspetta più. Questa volta s’alza e se ne va sgravando la panchina dal suo incarico, sé stesso dalle proprie ambizioni. Certo sarebbe stato bello, concreto, denso, nuovo, avrebbe scambiato finalmente il proprio tempo, cercato sé stesso nella voce di un altro, forse si sarebbe ritrovato ancora. Come accadeva un tempo. Frago, se prende una decisione sicuro che non molla. Ora sta lì, fra le sue mani, deciso ad alzarsi e andarsene, che aspettare non è più possibile. Guarda ciò che non c’è davanti a sé, lo spinge oltre come passatempo, poi lo lascia. Prima o poi arriverà, no ma quando vuoi che arrivi? Quello avrà altro da fare, nemmeno più ci penserà (semmai ci abbia mai pensato).

Io, dodici anni al parco, ho visto Frago arrivare e decidere di andarsene e ora lo vedo ancora lì. Non si è mai mosso in verità. Una pena vederlo consumarsi, tanto a lungo.

Sommerick non sa perché da anni mi vede fermo al parco a veder cosa fa la gente, si chiede come mai non abbia pensato di tornarmene a casa. Clelia sa che Sommerick da tredici anni le parla sempre di me, sono la sua ossessione.

Se solo Vilmio arrivasse, porterebbe la pace nel parco o la rivoluzione che tutti attendiamo.

Sono una lonza al forno

7 Mag

Nausea, eccola tornare.. Uno stomaco senza perché, una ragione che pareva già convinta. Dev’essere il raffreddore, queste notti di freddo e vento in pancia. L’alcool forse. Scrivo per esorcizzare soprattutto per vedermi allo specchio, capire dov’è che mi fa male. Che qualcosa da qualche parte dev’esserci, forse proprio lì dove mancan le risposte. Le mie, le avevo messe qui da qualche parte.

Com’è rinascere morire più volte nell’arco di una breve vita? Com’è tuffarsi a fondo e poi risalire, sentimento capodoglio? Saresti più quieto se non fossi io stesso a evocarti quando ne sento la mancanza?

Scriversi e rileggersi come medicamento, che io quelle risposte le avevo pure messe qua attorno.. Il silenzio poi, che è meglio delle parole vuote, è la cosa peggiore poiché non ha odore. Ha sembianze di volontà fantasma, è crudo, un sasso. Non mangio, si per forza che mangio ma non mi va. Annego l’arrosto nel vino, un po’di miele a dargli conforto, inforno e aspetto. Impiegherà molto a cuocersi ah… per poter essere mangiato da uno che proprio non ne ha voglia..

Io pure, penso di essere così.